Che cosa c’entra il trekking con la resilienza del Sistema Nervoso?

Breve cronaca degli effetti di un’intensa camminata.

Svariate ricerche sostengono che mettere volontariamente il corpo in uno stato di stress sia un’ottima maniera per “allenare” il sistema nervoso e quindi espandere la sua resilienza, aiutandoci ad essere sempre più pronti ad affrontare situazioni avverse. Ad esempio, pare -ma non ci sono veri e propri studi clinici che lo dimostrano- che l’esposizione al freddo intenso (come il bagno di ghiaccio di Wim Hof) possa stimolare l’attivazione del nervo vago e quindi in qualche modo allenare il sistema nervoso alla resilienza. Così come il freddo, ho incontrato lo stesso ragionamento anche rispetto ad altre pratiche, ad esempio il pranayama.
Similmente, posso dire di aver provato su di me questa tecnica ieri, quando (un po’ incoscientemente) mi sono lanciata in un’escursione piuttosto dura di circa 6 ore a oltre due mila metri d’altezza.

Dopo questa premessa, ci tenevo ad avvisarti che userò questo spazio in maniera un po’ diversa dal solito, perché sulla scia dell’esperienza di ieri, ho voglia di fare una breve di cronaca di tutte le sensazioni -del corpo- e le riflessioni -della mente- sull’impatto che il trekking impegnativo ha avuto sul mio complesso corpo/mente (a anche qualche piccola realizzazione). Durante quel percorso, che era altamente impegnativo per le mie condizioni fisiche attuali, ho forse per la prima volta veramente attivato quello che mi piace definire uno stato di testimone compassionevole.

Se mi conosci, sai bene che da dicembre sto cercando di guarire un’infiammazione all’anca destra, che molto probabilmente è stata scatenata da 5 settimane e mezzo di pratica intensiva di Yoga durante un training avanzato di 300 ore in India. E se mi conosci molto bene, oppure hai magari ascoltato una puntata passata del podcast, sai anche che considero il camminare una pratica estremamente curativa.

L’intenzione iniziale era quella di non esagerare, ma, come spesso mi capita, arrivata alla destinazione prefissata dopo una camminata molto più semplice di quello che desideravo, mi sono resa conto che quel breve percorso non mi bastava, volevo “sentire” di più e mettermi maggiormente alla prova. Allora mi sono fatta spiegare da una persona che lavorava nel rifugio nel quale mi trovavo come percorrere un circuito ad anello per ritornare alla seggiovia dalla quale ero partita. Avevo già percorso quei sentieri svariate volte (durante l’infanzia, con mio padre, l’adolescenza e anche più recentemente) per cui sono partita tranquillamente e con molto entusiasmo per il circuito, che sarebbe durato intorno alle 5 ore.

La prima cosa che ho notato è stata che negli anni ho davvero acquisito una maggiore capacità di ascoltare il mio corpo: ho capito che non mi avrebbe fatto bene camminare molto velocemente e mi sono concentrata sul respiro, riuscendo ad arrivare in cima al primo passo (2552m s.l.m.) con molta calma e centratura. Questo ha significato però una cosa che in passato non avrei mai accettato: lasciare passare davanti a me tutti quelli che andavano più velocemente. Da ragazzina (e da ventenne o anche trentenne) avevo un passo invidiabile, quasi certamente ereditato da mio padre, tanto che alcuni mi soprannominavano scherzosamente Messner. Per me, allora, era imprescindibile arrivare per prima in cima ad una salita. Ma a questo giro ho rivolto tutta la mia attenzione ad ascoltare come il mio corpo stava reagendo allo sforzo. E, in ascolto, mi sono placidamente adattata ad un’andatura che fosse sostenibile per la me di oggi. É stato bellissimo; e per la prima volta ho sentito di aver apprezzato in maniera completa l’esperienza della camminata, di averla vissuta totalmente stando dentro al mio corpo come non avevo mai fatto. E infatti: niente più fiato corto, nessuna iper-ventilazione, solo un regolare respiro intenso di chi sta salendo per una mulattiera e facendo 600m di dislivello.

Ma, arrivata in cima, ecco che sono stata messa di fronte a quello che odio di più…la discesa! Con grande umiltà e con ancora più gentilezza nei confronti di ciò che il mio corpo sarebbe stato in grado di fare mi sono messa in cammino per continuare il percorso. Non ho vacillato, volevo continuare! Osservavo il mio fiato, più corto di quando salivo, e quella lieve ansia di dover discendere da un sentiero davvero scosceso. Ad un certo punto, la sorpresa: c’era da scendere una scala a pioli di ferro attaccandosi ad una catena. Qui ho iniziato ad avere un po’ di apprensione, di fatto ero da sola, anche se intorno c’erano molte persone. Cosa ho fatto? Mi sono seduta e ho preso tempo per affrontare la discesa senza fretta: di nuovo, una strategia vincente che mi ha consentito di continuare con rinnovata fiducia senza fermarmi ancora per parecchi passi.

Ogni tanto, man mano che proseguivo nel percorso all’interno del Catinaccio, mantenendo un ritmo che mi consentisse di respirare agevolmente e una totale attenzione verso il mio corpo, ho iniziato ad avere dei bellissimi momenti di presenza. Mi sentivo veramente tutt’uno con quella Natura così immensa e grande. Mi sono resa conto ancora di più di quanto il nostro ostinarci, in quanto umani, a volerla piegare alle nostre necessità sarà un atteggiamento fallimentare e disastroso. La mia presenza -così come quella di altri esseri umani- non era nulla in confronto alla montagna. Ho sentito fortissimo uno spazio di infinita connessione con il tutto e mi sono abbandonata a questa forza di connessione. Ancora una volta ho ringraziato il ritmo del cammino per avermi donato la gioia di notare la flora ad alta quota, la luce, gli stormi di uccelli, le nuvole, il vento. Ma soprattutto di sentire il mio corpo che si muoveva in armonia con l’ambiente. Il cammino, io ne sono sempre più convinta, è l’unico ritmo di spostamento veramente sostenibile.

Man mano che salivo tra le rocce riuscivo però a percepire anche la stanchezza nelle gambe, non allenate, e mi sono sforzata di mantenere costante l’attenzione, nonostante il tremore e i parecchi punti in cui mi sono dovuta arrampicare. Ogni volta che ero su un tratto meno complicato notavo che l’allentarsi della tensione mi portava ad esser meno attenta -meno presente- sia verso me stessa che verso il percorso. Ho capito che per riuscire ad arrivare in fondo non dovevo preoccuparmi troppo di dove stavo, ma concentrarmi sul cammino. Un passo dopo l’altro.
E poi, a sorpresa, ecco affacciarsi ogni tanto un po’ di paura. Ho abbracciato questa emozione così primordiale, e l’ho accolta, ascoltata e vissuta senza resistenza, non volevo bypassarla, ma nemmeno abbandonarmi ad essa, perché sentivo che il mio corpo sarebbe andato in uno stato di congelamento, che non mi avrebbe consentito realmente di proseguire. Ho usato una tecnica molto efficace per regolare il mio sistema nervoso: l’orientamento, che mi consentiva di rimaner ancorata, un passo dopo l’altro, al sentiero e al mio corpo nello spazio. Un passo dopo l’altro.

E poi, finalmente…dopo 4 ore di cammino praticamente in silenzio, ecco il rifugio dall’altro lato della seconda forcella, la più impegnativa a salire e a scendere.
Che sospiro di sollievo, che soddisfazione, che gioia!

Ora, dallo sguardo privilegiato che il giorno di oggi mi offre sul giorno di ieri, posso affermare con certezza di aver finalmente avuto un confronto da adulta con il mio corpo, un confronto compassionevole, ma sincero. Ho saputo ascoltare veramente, ho fatto l’esperienza più completa di quelle che avessi mai fatto: perchè sono stata notevolmente più consapevole. E ieri sera, alla fine di questa esperienza, mentre tornavo, percorsa dalle endorfine e stanca dal rilascio dell’adrenalina, ho potuto guardare come una scienziata cosa stava accadendo dentro di me. Da testimone compassionevole ho visto che il mio corpo ha fatto tutto ciò che doveva fare e io gliene sono grata.

Oggi ovviamente sento il corpo indolenzito (il giorno precedente avevo camminato 14 km e nelle scorse settimane il tempo molto instabile non mi aveva dato modo di prepararmi adeguatamente alla camminata di ieri). ma ho di nuovo usato l’ascolto per capire di cosa ho bisogno.

Se questa esperienza abbia veramente aumentato la resilienza del mio sistema nervoso non lo so, ma mi ha dato davvero lo spazio di testare quanta consapevolezza ho acquisito nel mio percorso di embodiment.*
E sono molto felice e fiera delle vette che ho raggiunto in questo cammino, che sicuramente non è ancora finito.

*tradurre embodiment in italiano è molto complicato. Letteralmente sarebbe incarnazione, incorporazione o personificazione, ma le sfumature di ciascun termine in italiano non me ne riescono a far scegliere nessuno. Su questo, ed altri temi, dedicherò altre riflessioni. n.d.A.